Il film

L’albero degli zoccoli è stato girato tra il 1976 e il 1977, per lo più nei comuni della Bassa Bergamasca scelti tra quelli che ancora conservavano un alone del recente passato rurale negli edifici, nella parlata e nel modo di pensare e di essere della gente.

Lo sguardo documentaristico e dunque discreto che riprende le vicissitudini dei personaggi e che rende la pellicola anche un documento etnografico della povera realtà contadina di fine Ottocento, i rimandi autobiografici nascosti nei particolari, le emozioni delicate e insieme intense che suscita, gli sguardi che dicono più delle (poche) parole, i dialoghi ridotti al minimo, la colonna sonora discreta lo rendono il suo capolavoro assoluto, un inno a un mondo, una cultura, una tradizione che, nella seconda metà del Novecento, il progresso aveva condannato inesorabilmente all’oblio.

LA TRAMA

Autunno 1897:quattro famiglie di contadini vivono in una cascina della Bassa Bergamasca. La loro faticosa quotidianità, fatta di privazioni e miseria, di duro lavoro, ma anche di piccole gioie, amore, carità, aiuto reciproco, sentimenti autentici, fede e speranza è raccontata nell’arco di tre stagioni, fino all’estate 1898.

La prima famiglia è quella della vedova Runk,rimasta sola a crescere i suoi figli, potendo però contare sull’aiuto del saggio nonno Anselmo; c’è poi quella dell’irascibile e autoritario Finard con moglie e figli; della dolce operaia Maddalena che sposerà Stefano: i due andranno in viaggio di nozze a Milano, agitata dai modi operai repressi dal generale Bava Beccaris. Quella che però dà il titolo alla pellicola è la storia della famiglia di Batistì e Batistìna e dei loro figli: il primogenito Menek e gli altri due piccoli, uno appena nato; quando Menek rompe uno degli zoccoli il padre taglia di nascosto un albero per fabbricargliene un altro e permettergli così di continuare ad andare a scuola. Ma quell’albero, così come la casa che abita e la terra che coltiva non è di sua proprietà: scoperto dal padrone,Batistì viene cacciato dalla cascina insieme a tutta la sua famiglia. La loro rassegnata partenza chiude il film.

GLI ATTORI

Per rendere sommamente realistiche le vicende raccontate Olmi sceglie di girare con attori non professionisti, scegliendoli tra gli abitanti dei paesi che fanno cornice al film e che ben potevano ancora incarnare lo spirito di quel passato.
Coerentemente con questa volontà, decide inoltre di lavorare, piuttosto che con un vero copione, con un canovaccio: molto spesso agli attori-non attori dava solo indicazioni generiche su quello che avrebbero dovuto dire, in modo tale da ottenere dai protagonisti delle battute spontanee e assolutamente veritiere.

 

Interpreti e personaggi

Luigi Ornaghi: Batistì

Francesca Moriggi: Batistìna

Omar Brignoli: Mènec

Antonio Ferrari: Tunì

Teresa Brescianini: vedova Runc

Giuseppe Brignoli: nonno Anselmo

Lorenzo Pedroni: nonno Finard

Giuseppina Sangaletti: moglie del Finard

Battista Trevaini: Finard

Maria Grazia Caroli: Bettina

Pasqualina Brolis: Teresina

Massimo Fratus: Pierino

Carlo Rota: Peppino

Francesca Villa: Annetta

Felice Cervi: Ustì

Pierangelo Bertoli: Secondo

Brunella Migliaccio: Olga

Giacomo Cavalleri: Brena

Lorenza Frigeni: moglie di Brena

Lucia Pezzoli: Maddalena

Franco Pilenga: Stefano

Carmelo Silva: don Carlo

Mario Brignoli: padrone

Emilio Pedroni: fattore

Vittorio Capelli: Frikì

Francesca Bassurini: suor Maria

Lina Ricci: donna del segno

Guglielmo Badoni: padre dello sposo

Laura Locatelli: madre dello sposo

LA LINGUA

Ermanno Olmi non solo si è servito di attori non professionisti, ma si è anche affidato unicamente al dialetto bergamasco per poter conferire all’opera una dimensione più verosimile possibile. Benché esista una versione per il pubblico nazionale in lingua italiana, se ne consiglia la visione in lingua originale con i sottotitoli.

Olmi non impiega il dialetto bergamasco con il fine di celebrarlo né tantomeno con intenti caricaturali, ma semplicemente per quello che è: la lingua in uso presso la gente comune coinvolta nelle vicende narrate. L’unica parte di tutto il film interamente in italiano è il comizio del politico nella piazza dove il Finard trova una moneta d’oro. All’epoca effettivamente nessuno si sarebbe sognato di parlare in italiano, eccezion fatta per le persone colte.
Anche se non era nella sue intenzioni esaltarlo è comunque importante sottolineare che i dialetti non sono lingue rozze e “basse” solo perché in uso presso il popolo non istruito; dopotutto, l’italiano stesso non è altro che un dialetto – quello fiorentino – che “ha fatto carriera”. Tutti i dialetti italiani, o lingue volgari, derivano dalla stessa lingua madre, il latino, e hanno precise origini storiche documentate. Con l’avvento della scolarizzazione di massa e l’unificazione linguistica operata dalla televisione ha preso piede l’idea che parlare in dialetto equivalga a essere ignoranti (il bergamasco, in particolare, si è guadagnato la fama di lingua rozza), ma è una considerazione errata.

Il linguista Marco Robecchi ricorda che il dialetto bergamasco ha alle spalle 800 anni di storia: le prime testimonianze di questa lingua risalgono al XIII secolo e si tratta di semplici annotazioni scolastiche. È stato, per esempio, rinvenuto un glossario dove, accanto alle parole latine dei testi classici che si studiavano, sono presenti le relative traduzioni in dialetto.

Al secolo successivo risalgono le prime testimonianze dell’uso del bergamasco in testi di prosa: il “Lucidario”, un testo di catechismo tradotto dall’originale latino del 1100, e un diario personale del medico Battista Cucchi nel quale l’uomo annotò tutti gli interventi da lui eseguiti nell’arco di venti anni di attività.

Dalla fine del Quattrocento il volgare parlato a Bergamo cominciò a essere bollato come lingua degli incolti, ma già molto tempo prima era stato lo stesso Dante Alighieri – rinomato studioso di linguistica oltre che sommo poeta e tra gli artefici principali della “carriera del fiorentino” di cui sopra – a classificarlo come tale. Gli autori cominciarono a usare il bergamasco con intenti ironici e denigratori, anche se non sono mancati atteggiamenti opposti, ovvero di grandi uomini di cultura che si sono serviti del bergamasco per il bene della propria terra e per avvicinarsi più facilmente al proprio pubblico di lettori: è il caso dell’abate Giuseppe Rota, vissuto nel Settecento.

Riscoprire il profondo valore storico e culturale del dialetto: anche in questo ambito il capolavoro di Ermanno Olmi ci concede uno spunto tutto da approfondire.

I RICONOSCIMENTI

Disse Gilles Jacob, direttore del Festival del Cinema di Cannes: «Sono stato immediatamente sedotto da L’albero degli zoccoli, dalla sua miscela di dolcezza angelica e vita reale, dal suo ritmo quieto, agli antipodi delle frenesie della televisione che deve continuamente catturare l’attenzione degli spettatori[…]». E ancora «Qui Olmi è molto più di un regista: è un vero autore. I temi di questo autore sono i valori della famiglia, l’amore per i propri cari, per le proprie radici, il ritorno alla terra, tutti valori cattolici».

Scorrendo l’elenco dei premi vinti è evidente che non è stato l’unico a esserne “immediatamente sedotto”.

Tra i riconoscimenti si contano 18 vittorie …

  • 2 al Festival di Cannes 1978: Palma d’oro e Premio della giuria ecumenica
  • David di Donatello 1979: miglior film (ex aequo con Cristo si è fermato a Ebolidi Francesco Rosi e Dimenticare Venezia di Franco Brusati)
  • 6 Nastri d’argento 1979: regista del miglior film, miglior soggetto originale, miglior sceneggiatura, miglior fotografia, migliori costumi, miglior scenografia
  • New York Film Critics Circle Awards 1979: miglior film in lingua straniera
  • Kansas City Film Critics Circle Awards 1980: miglior film straniero
  • Premi César 1979: miglior film straniero
  • Premio BAFTA 1980: miglior documentario
  • French Union of Film Critics 1979: Premio della critica
  • 2 Grolle d’oro 1979: Grolla d’oro e miglior regista
  • National Board of Review 1979 negli Stati Uniti: miglior film straniero
  • SESC Film Festival 1980 in Brasile: miglior film straniero

… e una candidatura:

  • Premio dell’Accademia Giapponese 1980: miglior film straniero